La verità non è un dogma che si possa apprendere una volta per tutte ed imporre come una regola. La Verità è infinita come il Signore Supremo, ed essa si manifesta in ogni istante a coloro che sono sinceri ed attenti.
La Gita insegna l'azione divina, non l'umana; non l'adempimento dei doveri sociali, ma l'abbandono di ogni principio di condotta o di dovere a favore di un adempimento non egoistico della volontà divina operante nel mondo mediante la nostra natura; non un servizio sociale, ma l'azione dei migliori, di coloro che sono posseduti da Dio, degli uomini padroni di se stessi - azione compiuta impersonalmente per l'amore del mondo e in sacrificio a colui che sta dietro all'uomo ed alla natura.
Nulla accade mai per caso
Trimarga
Le situazioni della vita
L'aspetto filosofico
Le paure dell'ego
Tutto è uno
Dal Trimarga allo Yoga integrale
Il Siddhi Day in poesia
Nulla accade mai per caso
La grande importanza che la Gita riveste nell'esperienza di Sri Aurobindo prese forma sin dall'inizio della sua avventura. Così ebbe a scrivere il Maestro in una lettera: "Nel 1904 cominciai il mio Yoga senza alcun guru; nel 1908 ricevetti un aiuto importante da uno Yogi Maharatta e scoprii le fondamenta della mia sadhana, da allora, finché la Madre non giunse in India, non ricevetti aiuto spirituale da nessun altro. La mia sadhana, prima e poi, non era fondata sui libri ma su esperienze personali che si affollavano in me dall'intimo. Tuttavia in carcere tenni con me la Gita e le Upanishad, praticai lo Yoga della Gita e meditai con l'aiuto delle Upanishad, questi furono i soli libri nei quali trovai una guida; i Veda, che cominciai a leggere per la prima volta molto tempo dopo a Pondicherry, anziché guidare la mia sadhana, confermarono piuttosto le esperienze che avevo già avuto". Forti di ciò, amiamo pensare che forse non fu un caso che in quel 24 novembre 1926 in Sri Aurobindo scese la coscienza e la potenza di Sri Krishna il protagonista assoluto sul campo di battaglia di Kurukshetra, punto di inizio della trattazione della Bhagavad Gita. Non a caso quindi il Maestro chiamò quel giorno Siddhi Day, il giorno del Potere.
Trimarga
La Gita accetta le molteplici tecniche dello Yoga, riunendole in tre principali vie di liberazione trimarga appunto e cioè: l'azione o karma yoga, la conoscenza o jñana yoga e la devozione o bhakti yoga.
La via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è Dio che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti;
la via della conoscenza è il raggiungimento finale che tutto è Brahman, conoscenza però che non è raggiunta con il solo sforzo intellettuale bensì attraverso la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krishna il Signore supremo;
la via della devozione, l'essenza più intima della Gita, permette di raggiungere la liberazione nella consapevolezza che non con le sole azioni o con l'intelletto è raggiunto il Signore Supremo ma con il totale, incondizionato, assoluto abbandono a Lui solo. "Non per Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini (...) ma per la devozione diretta a me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per me, il cui supremo bene son io, colui che è a me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in me, Arjuna" (BG XI).
LE SITUAZIONI DI SUPERFICIE CHE LA VITA CI PONE DAVANTI
I protagonisti della Bhagavad Gita sono Arjuna, l'eroe e il condottiero dei Pandava e Krishna, il principe avatara, incarnazione del dio Vishnu. Arjuna, dopo tredici anni d'esilio, torna in patria per ricevere parte del territorio che gli spetta di diritto, ma Duryodhana, il capostipite della famiglia dei Kaurava, consanguinea dei Pandava, rifiuta di accordargli tale diritto. Dopo vari tentativi di mediazione, non resta altra possibilità che un terribile scontro armato. Il sesto libro del Mahabharata, il Bhìshmaparvan, all'interno del quale è inserita la Gita, inizia con la presentazione dei due eserciti, schierati l'uno di fronte all'altro sul campo di battaglia di Kurukshetra, pronti al tremendo conflitto finale. Simbolicamente Kurukshetra può essere inteso sia come il campo dei Kuru, sia come il campo dell'azione. Kuru deriva dalla radice Kri (fare) mentre kshetra, appunto, significa "campo". Approfondiremo questo tema quando analizzeremo il karma yoga.
L'aspetto filosofico
In una prima fase la Gita presenta lo jñana-marga, detto anche jnana-yoga, la via che conduce alla perfezione utilizzando le facoltà intellettuali. Conseguentemente, a tale riguardo, essa accoglie, con alcune fondamentali distinzioni, il pensiero metafisico Sankhya. Il sistema filosofico Sankhya sostiene una dottrina cosmogonica dualistica. È presente un dualismo ogniqualvolta una dottrina o una concezione presenta una dicotomia di principi - coerenti o non coerenti - che sono la causa e la persistenza di ciò che esiste o si manifesta nel mondo. Infatti nel Sankhya sono presenti due principi apparentemente co-eterni, ma radicalmente distinti: il Purusha e la Prakriti. Il purusha è il principio immutabile, il Sé che soggiace a tutti i cambiamenti della realtà superficiale ed esteriore, la quale è identificata, invece, con la prakriti o non-Sé.
Prakriti è costituita da tre modi, qualità o guna: Sattva, Rajas e Tamas che, secondo la loro mescolanza e proporzione, danno luogo al mondo manifesto. Sattva rappresenta la leggerezza, la bontà e la luminosità, rajas il movimento, la passione e la collera, tamas la pesantezza, l'ottusità e l'oscurità. Poi, in un successivo livello espositivo, la Bhagavad Gita, va oltre la filosofia Sankhya, in quanto se pur accetta in senso assoluto la realtà di entrambi i principi, questi vengono però considerati non come due cause originarie oltre le quali non vi è che il nulla, ma come due matrici subordinate a Dio, il Purushottama (il purusha supremo). L'uomo, che nel suo essere naturale è fondamentalmente legato ai guna in quanto qualità basilari su cui la realtà tutta si fonda, deve prendere coscienza del fatto che il Sé, le cui radici affondano nella sua più profonda interiorità, mentre i rami toccano i più alti piani spirituali, è distinto dalla prakriti e, per questo motivo, può liberarsi dalle catene dei condizionamenti dei modi della natura, normalmente insormontabili, e giungere alla moksha, la liberazione.
Con parole sintetiche e semplici possiamo affermare che la conoscenza metafisica della realtà può essere realizzata in pratica se si attuano discipline ed esercizi che possono coinvolgere ed indirizzare la mente verso una concentrazione spirituale. La disciplina principe che rappresenta lo stato dell'arte nel perseguimento dell'annullamento dell'attività della mente o silenzio mentale è lo Yoga. Attraverso lo yoga è possibile attingere alle conoscenze sovramentali, situate cioè oltre la mente, e comprendere la sostanziale Verità che tutto ciò che esiste è sola Unità. Il fine dello jñana-yoga quindi è quello di conoscere sia la realtà della creazione a livello filosofico-metafisico, sia le profondità dello spirito umano, per prendere coscienza della divinità che risiede all'interno d'ogni essere vivente.
Le paure dell'ego, l'azione e l'eterno ritorno
Arjuna, pronto al combattimento, chiede a Krishna di fermare il suo carro per avere la possibilità di vedere in faccia e capire chi sono gli avversari che ha di fronte. Prendendo consapevolezza di dover uccidere amici d'infanzia, vecchi maestri e parenti, cade in un profondo sconforto e decide di non combattere, di non agire. Un tale comportamento, però, non è dettato dalla pura ragione e non ha nulla in comune con la compassione divina; si tratta solo di un'indulgenza egoistica, una sorta di autocommiserazione sentimentalistica. La sua debolezza è dovuta al fatto che in tale momento egli è in preda all'illusione di considerare la forma corporea come l'unica, importante cosa esistente da salvare. In questo modo egli tradisce la sua condizione di kshatriya, che impone al guerriero il dovere di combattere per una giusta causa.
Infatti, la distinzione che Arjuna compie nei confronti dei suoi nemici, è frutto dei vari tipi di attaccamenti causati dall'ignoranza. Se in Arjuna vi fosse stata una secca determinazione a combattere, non vi sarebbero stati motivi di rifiuto ad uccidere persone particolari. Anche credendo nella non violenza sarebbe comunque ingiusto rifiutarsi di difendere i più deboli unicamente per codardia, oltre al fatto che tale comportamento alimenterebbe, non opponendo nessun ostacolo, la violenza avversaria. Riteniamo quindi che in un simile contesto la battaglia fosse giustificata. Non bisogna però credere banalmente che la Gita, in questi versi, inciti Arjuna ad una violenza o ad uno sterminio indiscriminati. Piuttosto, invita a combattere all'interno di una battaglia che gli è imposta come suo dovere, cioè il dharma che il Divino assegna ad ogni essere umano.
"Meglio è seguire la propria legge d'azione, sebbene imperfetta in se stessa.... (BG III) afferma Krishna .
Il combattimento che è in procinto di svolgersi, potrebbe anche essere inteso come una lotta fra il dharma e l'adharma. Il combattimento che infuria tra i Kaurava ed i Pandava, simbolicamente abitanti dentro ogni individuo, non è altro che una metafora dell'eterno conflitto che è in atto in ogni essere umano tra le forze del bene e quelle del male, le quali si personificano, ad esempio, come vizi e virtù. Il vero campo di battaglia, perciò, è all'interno del corpo umano, è il "corpo" umano; non possiamo non rammentare la battaglia della Madre nel corpo!
Così, dopo la richiesta di aiuto da parte di Arjuna, Krishna incomincia ad impartire il suo insegnamento teoretico-metafisico. Questo insegnamento quindi verte, in una prima fase, sulla dottrina dello jñana yoga appunto, la quale punta alla disidentificazione con l'ego inferiore, mutevole e perituro, per immedesimarsi con l'atman il principio spirituale eterno insito all'interno d'ogni individuo.
"Non ci fu mai un tempo in cui io non fossi, né tu, né questi prìncipi, né mai in futuro avverrà che tutti noi non saremo, dopo questa esistenza". (BG II)
È chiara l'allusione al samsara, alla trasmigrazione del jiva, il principio spirituale presente in ognuno, che continua, dopo la morte, ad incarnarsi in altri corpi fino a raggiungere moksha, la liberazione. Il samsara, che può essere definito come il corso dell'infinita successione di vita, morte e rinascita, è in intima correlazione con la legge del karma. Infatti, l'anima incarnata (jiva) - che è il prodotto dell'associazione dell'atman, il Sé, con un'entità psicofisica derivante dalla Natura (prakriti) attraverso le predisposizioni coltivate nella vita precedente con atti, parole e pensieri - si crea una nuova esistenza.
Tutti gli esseri sono trascinati e compresi in una sorta di flusso che scorre senza posa e porta con sé tutte le anime, le quali maturano, di esistenza in esistenza, attraverso una serie continua di nascite e morti, i frutti delle azioni (karma) compiute nelle precedenti esistenze. Secondo questa concezione, l'uomo, quindi, non vive, una sola volta; egli può bensì rinascere in una condizione migliore o peggiore della precedente a seconda che i frutti delle sue azioni abbiano maturato un karma positivo o negativo. Il fine ultimo dell'uomo, perciò, è quello di conseguire la liberazione dai vincoli del karma per raggiungere moksha, la liberazione, ancora meglio "come è detto in India" di colui che raggiunge moksha " il liberato in vita" cioè in un corpo.
Moksha è concepita come lo scioglimento del vincolo costituito dalla materia e dal mondo, come il superamento dell'ignoranza, come coscienza dell'unità fondamentale tra il Brahman, l'Assoluto, e l'anima individuale, l'atman, e come dominio della propria condotta egoica e conseguente distacco dal frutto delle proprie azioni. Il principio spirituale, l'atman, presente in ogni individuo è immortale, e perciò trasmigra di corpo mortale in corpo mortale fino alla liberazione assoluta. La formulazione metafisica dell'immortalità dell'anima nella Gita è espressa nel seguente modo:
"Non può venire in essere ciò che non è, né può cessare di essere ciò che è: coloro che vedono la verità sanno che fra questi due c'è un limite invalicabile". (BGII)
Tutto ciò che viene in vita è lo stesso Brahman che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà Suprema di ogni manifestazione. Solo se consideriamo un fenomeno a sé stante, possiamo parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l'uomo muore al morire del corpo fisico? Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato.
Difatti la risposta che Krishna dà ad Arjuna nella Gita è la seguente: "...........Come il sé
incorporato in questo corpo passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte non è su ciò mai perplesso" (BG II). In altre parole, l'io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman. "Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo...Come un uomo che abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi" (BG II).
Questi versi sembrano richiamare un principio echeggiato della tradizione filosofica occidentale secondo il quale l'essere che è non può non essere e il non essere che non è non può in alcun modo essere. A tale proposito, infatti, Sri Aurobindo rileva come in realtà la morte non esiste, poiché la morte colpisce il corpo, un corpo che non esaurisce la totalità dell'essere umano. L'anima, il Sé, non può cessare d'essere anche se per manifestarsi trasmigra in un'altra forma corporea. «L'opposizione che la mente riscontra fra ciò che è e ciò che non è potrà dissolversi solo quando l'anima realizzerà di essere il sé unico ed imperituro, il Brahman, da cui quest'universo si è diffuso».* Apparentemente l'affermazione di Sri Aurobindo sembra oppositiva, in quanto da una parte parrebbe sostenere che la mente riconosce come reale il mondo fenomenico e irreale l'anima (in tal senso deve considerarsi l'opposizione tra ciò che è e ciò che non è), dall'altra sostiene che l'opposizione svanisce nel momento in cui l'anima si fonde in unità con il Signore. In realtà non v'è opposizione in quanto la visione unitaria divina realizza la co-esistenza di principi opposti, le cui reciproche caratteristiche si esaltano vicendevolmente sino a fondersi, generando l'armonico principio divino onnipresente e onnicomprensivo.
Tutto È uno
La verità, come ci suggerisce Sri Aurobindo, consiste nell'esistenza di un'unica energia, che vibrando a diverse frequenze si manifesta in forme differenti: dalle più grossolane, come la materia fisica inerte, alle più sottili, come l'energia eterica, astrale ecc., cosa che la Madre durante la sua lunga vita ebbe modo di sperimentare innumerevoli volte. Il fenomeno fisico, quindi è semplicemente una parte limitata della realtà vibrante, per questa ragione, conseguentemente, non si può negarne l'esistenza.
A questo punto è facile comprendere l'affermazione della Gita:
"In un brahmano ricco di sapere e di modestia, in una vacca, in un elefante, perfino in un cane e in un uomo di rango infimo la stessa cosa vedono i sapienti". (BG V)
I sapienti vedono in tutti gli esseri, dalla più pura alla più impura, una sola e medesima essenza: il Brahman. I saggi riconoscono in tutte le creature quel Dio che è uno in tutti. Ricordiamo, infatti, che se il principio energetico che sostiene tutti gli esseri è unico ed indivisibile, cadono le barriere che limitano l'individuo ad isola solitaria. Tutto è interdipendente. L'apparente divisione è solamente una parte della manifestazione, ma ad uno sguardo più attento si manifesta la reale unicità della vita, e come spiegava la Madre alla ingenua domanda ma "com'è la visione di Dio" Lei rispondeva semplificando efficacemente: è come quando voi vi guardate attorno e vedete quella porzione di spazio intorno a voi, se immaginate di salire in alto e guardare in basso, man mano che salirete vedrete sempre più spazio, all'inizio vedrete una casa, poi tante case, poi vedrete la strada lungo cui le case sono costruite. Poi vedrete la città intera, poi vedrete tutta la nazione, gli oceani, infine vedrete tutta la terra ed ancora, contemporaneamente in un solo colpo d'ala il tutto: Dio!
La via della conoscenza, oltre ad essere una vera e propria teoria della conoscenza, è una filosofia di vita. Il sanyasin che segue la via della conoscenza interiore pratica un'austera ascesi, sottoponendosi a grandi penitenze. Egli ricerca, attraverso prolungati digiuni e la più assoluta immobilità fisica, la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Questa è la via dello jnana yoga, la via della conoscenza, la quale per la sua intrinseca difficoltà è sconsigliata da Krishna: "La rinuncia e il Karma-yoga procurano entrambi il sommo bene, ma fra questi due il Karma-yoga è preferibile alla rinuncia ad agire." (BG V)
La via della rinuncia implica l'abbandono delle azioni, mentre lo yoga pone l'accento sul dovere di compierle attraverso un combattimento secondo un giusto atteggiamento spirituale. Col giusto atteggiamento spirituale qualunque azione, pura od impura, è possibile, ed ogni azione fatta col giusto atteggiamento interiore diventa azione divina. Lo yoga dell'azione è sicuramente migliore per l'uomo, perché è più compatibile con la sua intima natura. Infatti è impossibile per l'uomo astenersi completamente dall'agire, essendo costituito da un corpo fisico che è naturalmente incline all'azione. Quindi, benché entrambe le discipline conducano alla liberazione, è preferibile perseguire il karma yoga così Krishna afferma. Possiamo quindi affermare di essere naturalmente inclini al karma yoga, vale a dire, all'azione distaccata priva del desiderio dei frutti dell'azione. Esso conduce l'uomo a prendere consapevolezza di non essere il vero autore delle azioni, perché è la natura fisica ad agire. L'atman, il Sé superiore, è semplicemente uno spettatore impassibile, conscio di essere immutabile, eterno e uno con Dio e con tutte le creature, il libero Testimone.
DAL TRIMARGA INIZIALE ALL'UNIONE COMPLETA O YOGA INTEGRALE
Poiché Yoga significa soprattutto unione, nella Gita questa unione si realizza straordinariamente nell'unificazione delle tre vie in un unico cammino di liberazione integrale. Questa unificazione, definita da Sri Aurobindo come il "ricevere la conoscenza e la percezione della Divinità integrale", può definitivamente realizzarsi solo nell'applicazione di quel Rahashyam uttamam o Segreto supremo che Sri Krishna così rivela ad Arjuna: "Abbandona tutti i Dharma e prendi rifugio in Me soltanto. Ti libererò da ogni peccato. Non ti crucciare" (BG XVIII). Il supremo segreto: l'amore. Ecco come Sri Aurobindo, al termine del canto IX, mirabilmente riassume e definisce l'essenza dello Yoga Integrale: "Unire la mente alla coscienza divina, fare della nostra natura emotiva un amore unico di Dio ovunque, fare delle nostre opere un sacrificio unico al Signore dei mondi, e della nostra adorazione e aspirazione una sola adorazione e un dono di noi stessi a Lui solo, dirigendo l'intero essere verso Dio in una totale unione, è il mezzo per uscire dall'esistenza mondana (comune) per entrare in quella divina. E' questo l'insegnamento della Gita, un insegnamento di devozione e d'amore divini, in cui la conoscenza, le opere e l'aspirazione del cuore si uniscono in una suprema unificazione, conciliando tutte le divergenze, allacciando tutti i fili in un vasto movimento di fusione e d'identificazione." (BG pag. 214)
IL SIDDHI DAY IN POESIA
Krishna
Finalmente trovo un senso al nascere dell'anima
A questo universo dolce e terribile,
Io che ho sentito il cuore affamato della terra
Aspirare ai piedi di Krishna oltre il cielo.
Ho visto la bellezza di occhi immortali
E udito la passione del flauto dell'Amante,
E conosciuto la meraviglia di un'estasi immortale
E il dolore nel mio cuore per sempre muto.
Sempre più vicina si fa la musica,
La vita ha un brivido di strana felicità;
Tutta la natura è un'ampia pausa d'amore
Nella speranza che il suo signore tocchi, afferri, esista.
Per questo solo istante sono vissute le età passate;
Finalmente ora il mondo compiuto pulsa in me.