"Il nostro proletariato è sommerso nell'ignoranza e schiacciato dall'angustia." Grida Aurobindo appena sbarcato in India
India - Bombay 1893
1893, primi giorni di febbraio. Un uomo "dalla faccia delicata, coi lunghi capelli tagliati all'inglese, timido nell'aspetto" (Purani), ma dal portamento disinvolto, ha messo piede sul molo Apollo nel porto di Bombay. E' arrivato con lo steamer postale Carthage; ha lasciato alle sue spalle il freddo e nebbioso inverno inglese, ma non c'è proprio nessuno ad attenderlo perché, sebbene avesse attraversato una furiosa burrasca nel Mediterraneo in cui erano affondate altre navi, ma non la sua, suo padre, ricevute queste notizie, era morto di crepacuore. Un funzionario, per errore, gli aveva comunicato che il suo caro Ara era morto proprio nell'affondamento di una di quelle navi.
Dopo aver passato i 14 anni più importanti e formativi della sua vita in terra straniera, ritorna finalmente In India. Era cresciuto in Inghilterra, ma non si sentiva in alcun modo attaccato ad essa. L'aria tersa, il cielo azzurro, lievi nuvole bianche, il vento tiepido, il sole indiano, sembrano come per incanto afferrarlo e trasportarlo in un mondo di sensazioni nuove. Gli pare di sentire "l'Infinito che pervade gli spazi materiali, una immanente Presenza dentro gli oggetti e le cose; gli sembra di essere trasportato in un mondo, al di là di quello fisico"(Purani), forse è una misteriosa, sacra, inafferrabile Presenza che lo attende.
E' l'India che lo attende facendogli un cenno d'accoglienza. Aveva scritto in una sua precedente poesia breve del 1890-92 dal titolo "Envoi" (Commiato): "Me from her lotus heaven Saraswati Has called to regions of eternal snow And Ganges pacing to the southern sea, Ganges upon whose shores the flowers of Eden blow."
"Saraswati mi ha chiamato dal suo cielo di loto per le regioni delle nevi eterne e il Gange segna l'andatura verso il mare del sud, Gange sulle cui rive fioriscono i fiori dell'Eden".
Ma in che modo l'India accoglie Aurobindo dopo quattordici anni di esilio? Con un regalo unico e inestimabile: un'esperienza spirituale. Nell'attimo stesso in cui Aurobindo mette piede sul suolo indiano, una grande pace, senza la benché minima agitazione, scende su di lui, per non lasciarlo mai più. Nella sua inconsapevolezza era iniziata, non richiesta, la vita spirituale, che sarebbe diventata l'unico scopo della sua vita, per tutta la sua esistenza.
I circoli culturali, i gruppi politici, i movimenti di rinnovamento religioso hanno dato un nome concreto e viscerale a questa misteriosa e sacra Presenza, adatto alle circostanze storiche, ma di inclusiva pregnanza: Madre India. Potrà essere una curiosa coincidenza diremmo noi europei, ma resta il fatto che il nome Bombay, la prima città dell'India che accolse nuovamente Aurobindo, proviene etimologicamente da Mumba o Maha-Amba, il nome della dea indù Mumbadevi, e da Aai, che significa Madre in lingua marathi.
Da quel momento in poi deciderà di non chiamarsi più Aravinda Akroyd; si firmerà con un nuovo nome, Aurobindo Ghose.
La situazione dell'India al rientro di Aurobindo
Il più grande letterato indiano della seconda metà dell'800, Bankim Chandra Chatterji, nel 1882 aveva pubblicato un racconto intitolato Anandamath (La Casa della Beatitudine). Il racconto è ambientato attorno all'anno 1770, nel Bengala, ai tempi della piena potenza della Est India Company.
Il racconto inizia con l'illustrare la regione che è devastata dalla siccità, con una terribile carestia e pestilenza. I soprusi dell'amministrazione locale, che dissanguano la popolazione con tasse e imposte, sono divenuti insopportabili. La Compagnia delle Indie ritira gran parte delle entrate e le spedisce oltremare. Una notte, un convoglio col carro che porta le entrate a Calcutta, scortato da 50 guardie armate, viene assalito e depredato; le guardie uccise e disperse. Oltre al bottino sottratto, viene liberato un prigioniero, Mahendra. Gli assalitori si ritirano nel cuore della giungla; e anche Mahendra li segue con a fianco il suo liberatore, Bhabananda.
Nella notte, con la luna in cielo, Bhabananda canta con estrema dolcezza: parole che si riferiscono alla "Madre".
- Chi è questa Madre? - domanda Mahendra.
- La nostra terra, la nostra patria. Essa è animata, essa è uno Spirito vivo e vibrante. Noi non conosciamo nessun'altra Madre-
- Ma chi siete voi? -
- Noi siamo i Suoi adoratori, i Suoi figli -
- Ma perché allora commettete soprusi? - ribatte Mahendra.
- Quali soprusi? -
- Questa rapina...! -
Allora Bhabananda si fa serio, lo guarda fissamente con gravità:
- Tu o sei ingenuo o cieco; non sai ciò che dici! Noi non portiamo via a chi possiede di diritto. Gli inglesi non hanno diritto di avere quest'oro. Essi non ci danno nulla; ci depredano e defraudano, nella completa indifferenza e insensibilità alle nostre sofferenze degli amministratori delle provincie. Milioni di persone stanno morendo di fame. A chi rubiamo dunque? Noi prendiamo da chi ci ha spogliati ingiustamente e distribuiamo a chi spetta di diritto. -
Poi dopo un lungo silenzio, riprende a cantare l'inno:
I misteriosi assalitori sono dei sannyasi; essi abitano nel cuore della giungla, dove vi è il loro monastero, Anandamath. La loro vita è consacrata interamente al culto della Madre. Essi svolgono un servizio ai loro fratelli, guidando spiritualmente i devoti della Madre, sparsi nel paese; intervenendo personalmente nelle situazioni di emergenza.
Il loro Maestro spirituale è Satyananda. Egli accoglie Mahendra e gli fa cenno di seguirlo in silenzio. Lo conduce in visita alle due realtà della Madre: in una stanza luminosa l'immagine della Madre Jagandhatri, quale fu nel passato, lo spirito che vivifica l'universo. Spiega Satyananda - Essa, sul dorso di un leone, uccise i demoni e pacificò le bestie feroci. Sotto il suo regno luminoso, le giungle selvagge furono esplorate, la terra adattata alla coltivazione e per essere abitata. Questo fu il tempo del nostro primo insediamento e l'inizio della nostra civiltà.-
Poi Satyananda conduce Mahendra in uno scantinato buio, dove vi è l'immagine di Kali, la dea della Distruzione. Satyananda, in lacrime spiega:
- Questo è ciò che è divenuta la Madre, saccheggiata, derubata, spogliata. La distruzione in massa dei figli della nostra terra è scolpita sul suo corpo, nelle teste tagliate, nelle membra sparse. Fuori di sé dal furore, calpesta il suo Sposo. Questo rappresenta dunque l'attuale stato di nostra Madre. - Si inchinano in silenzio e lasciano la stanza.
Poi Satyananda fa salire Mahendra ad un piano superiore in una grande e luminosa stanza, dove posa maestosamente l'immagine della dea Durga, una meravigliosa figura, con uno splendido sorriso e armi nelle sue sedici mani.
- Ecco, - dice Satyananda - nostra Madre nella pienezza dello splendore e della gloria, vigile con le sue sedici mani armate contro i pericoli, che incombono da ogni direzione. I nemici giacciono schiacciati. La sua stessa Forza bruta è controllata sotto i suoi piedi. Le dee del Benessere e della Sapienza stanno ai suoi fianchi. Il Progresso è rappresentato di fronte a lei. Questa è ciò che nostra Madre sarà; è ciò per cui abbiamo consacrato la nostra vita; è ciò che attendiamo. -
Mahendra, stupefatto, chiede a bassa voce:
- Quando avverrà? -
- Quando tutti i figli della sua terra, si raduneranno ai suoi piedi con devozione e grideranno all'unisono, con una sola voce: Madre! Bande Mataram! -
Il racconto prosegue, con chiare e pungenti allusioni alla situazione politica del momento. Da ultimo i sannyasi, con l'aiuto dei devoti della Madre, organizzano il popolo alla rivolta e lo conducono alla vittoria. Il popolo trionfante vuole acclamare Satyananda loro re. Ma, in quel momento, in veste di straniero, compare alle spalle di Satyananda il suo vecchio guru che gli dice:
- La tua missione è compiuta (...) . Per te è tempo di tornare nella tua solitudine. -
L'idea dei sannyasi consacrati alla Madre, in lotta per la rivolta del popolo, ancor prima di essere stata un'idea era stata una realtà. " Nella seconda metà del 1700, molti gruppi di sannyasi avevano organizzato la guerriglia e scontri aperti con gli inglesi, in varie località come Coochbehar, Saran, Dacca, Dinajpru, Rangpur, Rajshahi; in molti di questi scontri avevano riportato la vittoria. Erano diventati una tale minaccia che Warren Hastings nel 1773 aveva scritto: " Questi sannyasi appaiono così repentinamente nelle città e nei villaggi, che si direbbe piovano dal cielo. Sono forti, coraggiosi e tenaci, oltre ogni credere". L'ammutinamento del 1857 dei coolies delle piantagioni di tè ebbe, tra i suoi leaders principali, alcuni sannyasi e guru, che sollevarono la popolazione contro gli inglesi".(Srinivasa, I, 316-17)
Nell'attuale situazione storica, l'idea era nell'aria, accolta come motivo di ispirazione, se non di attuazione pratica.
Nel 1905 Gokhale darà vita, a Bombay, alla Servants of India Society, ideata e organizzata sulla visione di Bankim.
"Bande Mataram" diventerà il grido di battaglia, il mantra di riscossa e di guerra. Dopo il 1947 diventerà l'Inno nazionale dell'India libera. L'idea della Madre Divina, la Madre India, era un ideale globalmente inclusivo di tutti i motivi di risveglio nazionale: in esso si intrecciavano, molto strettamente, le trame del risveglio culturale, del rinnovamento spirituale, delle aspirazioni politiche e sociali, delle spinte rivoluzionarie.
Aurobindo farà totalmente suo questo ideale: sarà per lui la base per il passaggio dal piano politico al piano spirituale, la porta d'entrata per l'esperienza del Divino.
La situazione che Aurobindo trova al suo arrivo in India è sinteticamente la seguente.
Prima di tutto un rilevante risveglio del mondo culturale in tutto il paese, particolarmente a Calcutta e Bombay. Le scuole e le università, inaugurate dagli inglesi, la stimolante diffusione della cultura occidentale, l'introduzione dell'inglese come unificazione linguistica delle diverse regioni indiane, stava donando al paese una nutrita schiera di intellettuali preparati e fertili. La riscoperta dei testi filosofici e "religiosi", gli studi storici, le ricerche archeologiche svelavano agli occhi stupefatti degli occidentali prima e degli stessi indiani poi, una tradizione culturale ricca, senza pari. Letterati, scrittori, autori di prosa e teatro, di musiche e danze, poeti, storici, ognuno a suo modo e nel suo campo, contribuiva alla valorizzazione delle cultura autoctona indiana.
Riviste, libri, giornali e associazioni culturali diventano il sostegno e l'inevitabile strumento per la diffusione di questo movimento. Attraverso e con esso progredisce un sentimento di fiducia, la sicurezza della promessa di un luminoso avvenire, la speranza di accedere alla maturità culturale e sociale, la certezza di essere eguali a tutte le altre grandi nazioni del mondo. Ogni sentimento di inferiorità e sudditanza rispetto al mondo culturale inglese e occidentale è abbattuto.
Raj Narayan Bose (il nonno di Aurobindo), fondatore nel 1866 della Society for the promotion of National Feeling among the educated Natives of Bengal, nell'anno di nascita di Aurobindo scrive in un articolo: "Vedo, nella mia mente, la nobile e potente nazione indu sorgere dal sonno e avanzare verso il progresso, con divino ardire. Vedo questa ringiovanita nazione illuminare di nuovo il mondo col suo sapere, con la sua spiritualità e cultura; e la gloria della nazione indu di nuovo risplendere su tutto il mondo". (Majumdar, I, 331-32)
E' in questo periodo che il grande Rabindranath Tagore inizia ad infiammare il cuore dei giovani indiani con le sue composizioni poetiche e patriottiche.
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Allo stesso tempo il movimento di risveglio religioso sta operando ancora più radicalmente. Gli antichi testi religiosi indu vengono ripresi, letti e studiati, meditati e tradotti in strumenti di rinnovamento. Viene percepito che la ricchezza della tradizione indu risiede in quella che noi (occidentali) definiamo la "religione", che le profondissime verità di questa religiosità non hanno nulla da invidiare alle grandi religioni del mondo; che tale religiosa spiritualità è in grado di unificare tutte le popolazioni dell'India, al di là delle differenti regioni, usi e costumi, tradizioni e linguaggi; che è il possesso peculiare dell'India ed è ciò che essa ha da offrire al mondo, è la ragione per cui si scuote e risorge, è la causa fondamentale per la quale non è morta e scomparsa come altre nazioni, perché illuminare il mondo a venire con questa spiritualità è il suo mandato e il suo destino, la missione per la quale la Madre Divina la sta rigenerando.
Nabagopal Mitra (1840–1894), editore nel 1865 del giornale National Paper voluto da Rabindranath Tagore, è ideatore dell'organizzazione degli Hindu Mela, iniziativa ideata "per la promozione del sentimento nazionale", scrive che "il destino del popolo indu è di essere una nazione spirituale". (Majumdar, I, 337)
Contemporaneamente erano sorti organismi di revisione della "religione" brahminica e di ritorno alle antiche fonti delle scritture indu. Fra questi, i due più importanti furono il Brahmo Samaj (il padre di Aurobindo, come abbiamo visto, ne era un fermo simpatizzante) fondato a Calcutta dal raja Ram Mohan Roy e l'Arya Samaj, sorto a Bombay nel 1875 per opera di Swami Dayananda Saraswati (12 Febbraio 1824 – 30 Ottobre 1883). Ma soprattutto un uomo aveva segnato gli indirizzi "religiosi" dell'India, senza scrivere libri, ma solo con la predica e la presentazione della sua vita. Nessuna organizzazione era stata da lui fondata, e i suoi discepoli o swami erano fra i più importanti dell'India moderna. Si chiama Ramakrishna Paramahansa. Egli vive dentro di sé tutte le esperienze della spiritualità, percorre e oltrepassa i cammini delle diverse confessioni. Egli è maomettano, cristiano, buddhista, induista; supera tutte le differenze di sette dell'induismo stesso. Non critica, non polemizza: tutte le strade religiose o spirituali conducono all'unico Dio. Egli è in se stesso, nella sua vita, l'esperienza del Divino sulla terra, e sembra impersonare l'ideale di un cammino nuovo verso Dio; un incrocio in cui tutte le strade si uniscono e fondono. Ramakrishna appare come l'immagine vivente dell'India spirituale; il simbolo fatto persona, della sua missione nel mondo. Egli è l'uomo spirituale più imponente dell'India rinata.
«Siedi ai bordi dell'alba, il sole sorgerà per te. Siedi ai bordi della notte, la luna nascerà per te. Siedi ai bordi di un torrente, un uccello canterà per te. Siedi ai bordi del silenzio e Dio ti parlerà»
Vivekananda
L'apostolo più importante di Ramakrishna si chiama Narendra Nath Dutta o Swami Vivekananda (Calcutta, 12 gennaio 1863 – Cossipore, 4 luglio1902). Dà l'impressione di essere un uomo uscito dal nulla, quando si presenta col suo saio arancione di sannyasi, nel 1893, al Parliament of the World's Religions di Chicago nel 1893 a 30 anni, lì inviato da Ramakrishna; nessuno lo conosce, non ha lettere credenziali; arriva addirittura in ritardo per iscriversi nella lista dei partecipanti. Ma sin dalla prima parola della sua relazione: ''Fratelli e sorelle d'America e di tutto il mondo...'' fino all'ultima, egli si guadagna l'attenzione e la devozione di tutta l'assemblea, dominandola letteralmente. Al suo ritorno in India un lungo e faticoso pellegrinaggio lo aspetta, spesso a piedi si sposterà dall'Indu al Brahmaputra, dall'Himalaya a Capo Comorin. Il suo grido: "Sorgete, figli dell'India, svegliatevi!" scuote le coscienze, ridesta i cuori, suscita l'entusiasmo.
In verità non si può realmente capire la natura del risveglio dell'India, le sue caratteristiche sociali, culturali e politiche e forse il suo compito fra le nazioni del mondo, se non si tiene conto di questa potente componente spirituale. Essa è un luogo di esperimenti di spiritualità religiosa nel verso significato letterale delle parole. Qui ogni esperienza spirituale è possibile, ogni prova, ogni tentativo, purché vi sia una ricerca del Divino. L'India è il ricettacolo di ogni guru o profeta che possono annunciare la loro dottrina ai propri discepoli. Di fatto è l'unico paese al mondo, oggi, in cui da ogni parte arrivano persone per questo preciso scopo, cercare un cammino spirituale verso il divino Infinito.
Oltre a questa innata componente spirituale, hanno sicuramente contribuito al risveglio nazionale indiano i movimenti politici. Nel momento in cui Aurobindo arriva in India, la situazione politica era la seguente.
1) Vi è il Congresso Nazionale che rappresenta la linea moderata;
2) un'ala estremista o nazionalista;
3) i gruppi rivoluzionari.
Il Congresso Nazionale era sorto nel 1885 (25 dicembre) con la sua prima sessione a Bombay, per volontà di Allan Octavian Hume. Hume era un giovane inglese che aveva lavorato nell'I.C.S., da cui si era ritirato nel 1882.
Lo scopo, per cui aveva lanciato l'idea del Congresso Nazionale, non era di ottenere la liberazione e l'indipendenza dell'India, piuttosto raggiungere, attraverso il compro-messo, un'asservita e accondi-scendente collaborazione con il governo inglese. Di fatto l'iniziativa aveva preso l'avvio con la "benedizione" del vicerè e governatore generale Frederick Hamilton-Temple-Blackwood, 1st Marquess of Dufferin and Ava (1826-1902), più semplicemente e meno pomposamente Lord Dufferin.
L'amministrazione inglese oscillava fra due condizioni: era preoccupata per lo scontento generale della popolazione, s'accorgeva dell'incapacità di controllare in modo completo la situazione; vedeva, quindi, con apprensione il movimento troppo libero, tra queste due sponde, della forte corrente di risveglio spirituale, culturale e politico del paese.
Per cui l'idea dello Hume veniva proprio al caso, questi immaginava di poter raccogliere nel Congresso i leaders politici più importanti e decisivi del paese e fare del Congresso una specie di ala democratica d'opposizione dell'amministrazione britannica.
Con questo schema, è quindi facile comprendere come il Congresso, fino al periodo che stiamo esaminando, non avesse fatto altro che richieste, proteste, magari ottenuto delle riforme poco importanti; ma non aveva o probabilmente non era in grado di avanzare una reale alternativa radicale, di liberarsi dal protezionismo inglese e prospettare una politica che non solo non tenesse conto degli inglesi, ma programmasse esplicitamente di eliminarli: aveva fatto, come Aurobindo stesso scriverà "una politica da mendicante".
Le proposte del Congresso più "audaci" riguardavano una indianizzazione progressiva della rete amministrativa dell'I.C.S., fino alla possibilità di un governo rappresentativo, subordinato alla corona britannica, naturalmente, e ad un governatore generale. Ma oltre ciò non si andava.
D'altronde, per la sua stessa mescolanza il Congresso non poteva pensare differentemente. Esso convogliava in se stesso tutta gente legata a doppio filo col governo britannico, raja, zemindar (un proprietario terriero che affittava i terreni ai contadini), maharaja, nawab (titolo onorifico dato a governanti musulmani di principati indiani) , aristocratici e capitalisti, o alti funzionari della rete burocratica inglese; il proletariato e la classe media, i naib, i coolie, i pariah, la classe proletaria degli shudra, componevano l'enorme massa né rappresentata, né ascoltata.
Risulta evidente di conseguenza che, in special modo nel Bengala, si fossero già espresse idee politiche molto più libere, correnti di pensiero più aperte e spigliate con programmi d'azione più arditi e coraggiosi, una sensibilità più legata alla realtà, una visione più vera, un'aspirazione più avanzata, una prospettiva oseremmo dire profetica.
Riportiamo a titolo di esempio sull'argomento in questione ciò che avevano scritto nei loro rispettivi articoli sia Vivekananda e Aurobindo.
Libertà di pensiero e azione
La libertà di pensiero e di azione è l'unica condizione di vita, di crescita e di benessere.
E quando essa non emerge l'uomo, la razza, la nazione precipitano in basso.
Uomini, classi, caste, nazioni o istituzioni che vietino il potere del libero pensiero ed azione dei singoli - a condizione che tale potere non rechi danno agli altri - si rendono diabolici e devono essere abbattuti. Qualunque cosa che rallenta l'avanzamento nel progresso o favorisce la caduta verso il basso è vizio; tutto ciò contribuisce all'emersione e all'armonizzazione è virtù.
La mia idea è portare alla porta del più meschino, del più povero, le idee nobili che la razza umana ha sviluppato dentro e fuori dell'India, e lasciarli pensare in modo autonomo. Noi non predichiamo l'uguaglianza sociale, né la disuguaglianza, ma affermiamo che ogni essere abbia gli stessi diritti, sostenendo la libertà di pensiero ed azione in ogni modo. La Libertà è la prima condizione.
La benedizione del Signore scenda su voi tutti! I Suoi poteri possano essere in tutti voi - come credo lo sia già. "Svegliati, non ti fermare fino a quando l'obiettivo non sia raggiunto", dicono i Veda - svegliati, la lunga notte sta passando, il giorno si avvicina, l'onda è cresciuta, niente sarà più in grado di resistere alla furia della sua marea. Lo spirito o giovani, lo spirito, l'amore o coraggiosi, l'amore, la fede, la convinzione, e non abbiate paura. Il peccato più grande è la paura.
Non abbiate paura di un piccolo inizio. Avete l'amore? Sarete onnipotenti. Siete perfettamente altruisti? Se è così sarete irresistibili. E' il Signore che protegge i suoi figli nelle profondità del mare. Il vostro paese esige eroi. Siate eroi.
L'entusiasmo presente è solo un po' di patriottismo, non significa niente. Ma se è vero e genuino troverete, in breve tempo, centinaia di eroi che si presenteranno per portare avanti il lavoro.
Swami VIvekananda
dal Bande Mataram, 1907
Le tre vie per la libertà
La resistenza nazionale organizzata contro le condizioni esistenti, sia diretta contro il sistema di governo in quanto tale o contro qualche aspetto particolare di esso, ha tre vie possibili. Si può tentare, nelle condizioni attuali, di rendere l'amministrazione impossibile con una resistenza organizzata passiva ...
Si può tentare, nelle attuali condizioni, di rendere l'amministrazione impossibile con una resistenza organizzata aggressiva nella forma di una campagna instancabile e implacabile di uccisioni, ridde confuse di tumulti, scioperi e rivolte agrarie in tutto il paese ...
La terza possibilità utile ad una nazione oppressa è quella della rivolta armata, che invece di far cessare le condizioni esistenti rendendone impossibile la continuazione, le spazzi fisicamente via dall'esistenza. Questo è il vecchio metodo consacrato dal tempo, che gli oppressi o schiavi hanno sempre adottato di preferenza in passato, e che adotteranno in futuro se vi vedranno qualche possibilità di successo, perché è il più immediato, il più veloce, il più completo nei suoi risultati, e richiede minime capacità di sopportazione e sofferenza, più piccoli e più brevi sacrifici.
La scelta dei mezzi che una nazione sottomessa userà per rivendicare la sua libertà, sarà meglio determinata dalle circostanze della sua schiavitù.
Aurobindo Ghose
13 aprile 1907
Il Majumdar nel suo "Storia del movimento di liberazione dell'India", nel 1905 fa il punto della situazione con queste parole: "Parlando apertamente, le misure pratiche di riforma, richieste dall'Indian National Congress tra il 1885 ed il 1905, rappresentano grossomodo lo stadio del progresso politico raggiunto dal Bengala, nella precedente metà o quarto di secolo. Le incongruenze dell'amministrazione britannica e le misure suggerite per rimuoverle coprono praticamente lo stesso terreno. E i mezzi proposti per raggingere lo scopo sono anche gli stessi. Si nota la stessa incrollabile fede nel carattere provvidenziale dell'amministrazione inglese, il forte e sincero sentimento di devota lealtà alla corona e la stessa patetica abietta fiducia nel senso di giustizia degli inglesi, i quali avrebbero accondisceso ad ogni ragionevole richiesta degli indiani, qualora fossero stati correttamente interpellati.
Pertanto l'Indian National Comgress non poteva tenere il passo con i più avanzati ideali politici; e di fatto non era in grado di rispondere allo sviluppato senso di nazionalismo e patriottismo, che era nato nell'ultimo quarto del 19° secolo. L'ideale della libertà come nostro diritto di nascita, un appassionato desiderio di indipendenza, radicato nel sentimento di grandezza della nostra antica cultura, un odio viscerale verso l'amministrazione britannica, a motivo del suo iniquo carattere e una tempestiva protesta contro ogni arroganza degli inglesi, sono palesemente assenti nei programmi e nelle procedure dell'I.N.C., durante i primi vent'anni della sua esistenza.
Nessuna meraviglia perciò se gli ideali e i metodi del Congresso non riuscirono a soddisfare gli ideologi di partito più avanzati e le aspirazioni di nuovo spirito di nazionalismo che stava diventando una vera forza politica del Paese." Majumdar
In effetti all'interno del congresso prese corpo un'ala nazionalista, o estremista, come la chiamavano i moderati che si sviluppa soprattutto in Bengala, ma ha come leader il maharashtra Bal Gangadhar Tilak (Ratnagiri, 23 luglio 1856 – Mumbai, 1 agosto 1920), un vero ammaliatore di folle che lanciò lo slogan: "Swaraj è il mio diritto di nascita". Egli fu il primo tra i leaders politici indiani a dare rilievo con la parola e l'esempio ai quattro motivi del nuovo movimento:
1) una fede sincera nella gloria e grandezza della cultura indiana del passato e la convinzione che ogni futuro sviluppo debba basarsi su questo fondamento.
2) Una certezza che la politica mendicante, seguita dal congresso, non condurrà mai alla meta; gli indiani devono confidare sulle proprie forze e asserire i loro inalienabili diritti anche a costo di grandi sofferenze e sacrifici se vogliono ottenere una sostanziale forma di autogoverno.
3) L'obiettivo fondamentale della politica indiana è l'autogoverno, o Swaraj (indipendenza) e non le riforma amministrative.
4) Il risveglio di una coscienza politica nel popolo su larga scala e la necessità di manifestazioni politiche di massa.
Accanto a questa decisa corrente politica, osteggiata dal governo, ma tollerata, si muovono con altrettanta decisione i gruppi rivoluzionari, clandestini, perseguitati accanitamente dalla polizia.
Questi uomini dovevano avere una forza d'animo eccezionale; le loro storie sono appassionanti e commoventi nello stesso tempo. Uomini votati alla morte, per i quali era già sicura la fine; uomini che si nascondevano, fuggivano, si riparavano, non per evitare la morte, ma per avere più tempo per colpire ancora.
Purtroppo non erano, in generale, collegati tra di loro, non avevano piani comuni e organici; questo costituiva la loro marcata debolezza.
Spesso si camuffavano dietro attività organizzate come palestre sportive: qui si allenavano alla lotta, imparavano a usare il pugnale e il lancio dei coltelli, l'uso del lathi. Avevano depositi segreti di munizioni e armi; nella giungla, si esercitavano al tiro della pistola e del fucile; imparavano a costruire e ad usare gli esplosivi. Qualcuno di loro cercava di entrare nell'esercito britannico, per conoscerne l'organizzazione e la strategia militare, per fare propaganda rivoluzionaria tra i soldati di etnia indiana. Qualcuno, a costo di enormi sacrifici, veniva mandato all'estero, per imparare i metodi della guerriglia, procurarsi fondi, armi e munizioni.
In genere, erano rudi uomini d'azione, ma qualche ideologo estremista li aveva introdotti alla lettura di Mazzini, alla conoscenza della figura di Garibaldi, della tecnica dei Carbonari e dell'El Fein irlandese; avevano assimilato le modalità e le basi portanti della lotta francese contro gli inglesi, e conosciuto la figura di Giovanna d'Arco; adoravano l'eroe della loro tradizione, Shiwaji e il suo Hindavi Swarajya, il ribelle contro gli invasori maomettani; meditavano la Bhagavad-Gita, i discorsi di Vivekananda; in qualche gruppo c'era il culto della Madre come Kali.
I loro obiettivi erano soprattutto i mezzi di comunicazione: le poste, i telegrafi, le ferrovie, e poi le prigioni: molti condannati a lunghi anni di detenzione si univano a loro. Per procurarsi fondi, assalivano banche e tesorerie. Altri obiettivi erano chiari: infatti spesso i giornali riportavano il ritrovamento di cadaveri, funzionari inglesi, spie, traditori, leccapiedi.
Nella mente di alcuni rivoluzionari fra i più acuti, il programma era quello di creare una organizzazione di guerriglia in tutto il paese, che rendesse insostenibile la situazione, disorientasse il potere repressivo inglese, sollevasse la rivolta popolare.
Questi gruppi operavano in particolare nel Bengala. Alcuni di essi si collegheranno tra di loro, per iniziativa dell'avvocato Pramatha Mitter. Sarà con questa persona e con questi gruppi che Aurobindo entrerà in rapporto in modo particolare.
Questa, in sintesi, è la situazione che Aurobindo, a ventun'anni, trova al suo rientro in India; è un po' stordito, è smarrito in questo nuovo mondo in fermento che è la sua patria. Intanto deve trovare una strada, un luogo e un modo in cui e con cui concretizzare le sue aspirazioni, certamente non vuole passare una vita sterile e inutile, non sa ancora bene che cosa fare.